Israeli Prime Minister Yitzhak Rabin, left, and PLO chairman Yasser Arafat, right, shake hands as President Bill Clinton presides over the ceremony marking the signing of the 1993 peace accord between Israel and the Palestinians on the White House lawn, Sept. 13, 1993. (AP Photo/Ron Edmonds)

C’è stato un momento, tra israeliani e palestinesi, nel quale la pace sembrava davvero a portata di mano. Forse era solo che ero più piccolo e meno disilluso, forse che negli anni novanta il futuro sembrava meno cupo, ma si aveva l’impressione che tutto avrebbe portato lì, che in entrambi gli schieramenti i costruttori di pace con le loro ragioni fossero maggioritari, avessero più presa nei popoli rispetto a quanti mettevano in guardia sui rischi, le paure, le concessioni da fare.
Credo sia giusto dirsi che non è più così da tanto tempo. Oggi il terrorismo di Hamas mostra il suo volto più brutale e più terrificante con i rapimenti, le uccisioni, le donne e i bambini bruciati o sgozzati. Ma sono anni che la strada della violenza ha trovato terreno più fertile rispetto ad una via della pace che non ha più saputo generare leadership e consenso nel mondo palestinese.
Al contempo, da anni, le elezioni in Israele hanno condotto il governo sempre più lontano dalla prospettiva dei “due popoli, due stati”, si sono inasprite le rappresaglie e rese ancora più dure le condizioni di vita nella striscia di Gaza.
Tutte le domande sono legittime. Israele può davvero vivere in pace se al suo fianco vive chi vuole uccidere ogni ebreo esistente sulla faccia della Terra?
Come si può interrompere questa spirale di violenza che si autoalimenta, più le condizioni a Gaza peggiorano e più Hamas si rafforza, più Hamas si rafforza e più attacca, più Israele si difende e contrattacca con i mezzi e gli strumenti che ha?
Le cose, poi, sono ancora più complesse di così, se pensiamo agli alleati, agli accordi, alle influenze esterne del mondo arabo e di quello occidentale. Ed è anche da lì che può e deve arrivare una parte di risposte, una via diplomatica, una soluzione civile che per mille colpe e ragioni diverse non si è ancora realizzata.
Oggi, però, accanto alla pietà ed alla solidarietà, tutto questo mi lascia un grande senso di frustrazione. Come se non ci fosse più speranza. Come se quei popoli siano condannati in eterno.
E come in quei momenti in cui la strada sembra così lunga e pesante e il lavoro così intricato e difficile, un esito positivo non si vede, si può al massimo pensare, immaginare.
E quindi, per oggi, noi che abbiamo il lusso di fare da spettatori, possiamo tenere vivo almeno quello. Un pensiero, seppur così remoto, di pace.

Jacopo Scandella

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