Cresciuta sentendosi ripetere che sarebbe stato meglio non fare politica, perché i rischi in Iran erano troppi, Narges Mohammadi non ha mai ascoltato queste voci, difendendo i diritti delle donne e protestando contro la repressione, le torture nelle carceri iraniane, la pena di morte.
Narges Mohammadi ha perso tutto: la carriera da ingegnera, la propria famiglia, la propria libertà. Il regime degli ayatollah ha provato a piegarla, senza riuscirci. Oggi, mentre viene insignita del Premio Nobel per la Pace, è in carcere, condannata a oltre 30 anni di carcere e quasi 160 frustate.
Ma nonostante questo, lei continua a parlare, a combattere quel regime vigliacco e crudele contro le donne, che qualche giorno fa ha fatto un’altra vittima: Armita Geravand, ragazza di 16 anni in coma da domenica, dopo essere stata picchiata in metropolitana dalla polizia iraniana perché non indossava l’hijab.
“Più mi puniscono, più mi portano via cose, più sono determinata a combattere finché non otterremo democrazia e libertà”. Il Premio Nobel diventa così un segnale potentissimo contro un regime che ha fatto della soppressione dei diritti fondamentali l’unico metodo per rimanere al potere.

Silvia Roggiani

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