La carenza di personale nelle RSA denunciata pochi giorni fa da ARSAC – Associazione delle residenze socio-sanitarie della provincia di Cremona è un problema serissimo, che dura da anni ma che sta realmente diventando insostenibile.
Parliamo soprattutto di infermieri, educatori, O.S.S. ed A.S.A., vale a dire proprio degli operatori e delle operatrici più versati, per le mansioni che ricoprono, alla assistenza diretta agli anziani, i quali approdano al ricovero in RSA in condizioni di sempre maggiore non autosufficienza e comorbilita’, cioè presenza di più malattie insieme, senza contare l’incidenza delle demenze, che nel Paese è dell’8% negli ultraottantenni, e del 14% negli ultranovantenni, ma è ovvio che percentuali maggiori si concentrino proprio nelle strutture sanitarie.
ARSAC ci spiega che al momento, coi salti mortali, gli standard di assistenza sono rispettati, ma per esperienza posso dire che questi standard di minutaggio (901 minuti settimanali di assistenza) sono tali da un paio di decenni, ma gli ospiti di oggi in RSA non sono certo quelli di 20 anni fa!
Aggiungiamoci, per le RSA, il problema della quota sanitaria. Al ‘costo’ dell’anziano nella RSA si applica un criterio di ripartizione: esistono una componente sanitaria e una alberghiera – socio assistenziale. Quest’ultima è pagata con la retta di degenza, la prima rientra nel SSN, e come tale è a carico dello Stato, perché la famiglia o il paziente non deve nulla per le cure relative a una malattia. In concreto, in Lombardia, si tratta della quota sanitaria c.d. “S.os.i.a.” erogata dalla Regione alle strutture, sebbene da oltre vent’anni le RSA eccepiscano che in realtà il c.d. “costo sanitario” degli anziani ricoverati sia superiore a quello “coperto” dalla Regione. Così le RSA sono costrette a tagliare i costi e ad aumentare le rette, scaricando sulle stesse anche costi sanitari, circostanza per vero ammessa dalla Regione, che dispone che le strutture, annualmente, rilascino agli anziani ospiti apposite certificazioni, attestanti la quota parte di spesa sanitaria sostenuta con il proprio pagamento della retta, ai fini di potere scaricare tale componente in sede di dichiarazione dei redditi quale “spesa sanitaria”.
Questo spiega anche perchè molte RSA, prigioniere di bilanci sempre inadeguati, non riescano ad applicare il CCNL SANITÀ ai propri operatori (peggio poi quando lo applicano in sede di contrattazione individuale, a spot, alcuni operatori con contratto Sanità e altri no, pur lavorando gomito a gomito!) i quali, quando possono partecipare ai concorsi negli Ospedali, dove c’è una differenza di stipendio significativa e dove, probabilmente i carichi di lavoro materiale e quelli emotivi sono meno impattanti, lo fanno giustamente senza troppe remore.
Insomma, un contesto difficile e delicato, sul quale da anni non si sta ponendo la dovuta attenzione da parte della politica, in particolare quella regionale, che mette in crisi strutture strategiche per la cura di una popolazione che invecchia sempre più e che non è una catena di montaggio, pertanto il benessere organizzativo e di lavoro degli operatori, in termini di presenza adeguata alle esigenze assistenziali e pure di giusta retribuzione, dovrebbe essere in cima ai pensieri dei decisori politici, perché ha immediati effetti sulla qualità della assistenza. Ma così non è.
Post lungo, perdonate lo sfogo ma il tema mi appassiona.

Stefania Bonaldi

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